
“…la magnificenza e la prosperità di Maurilia diventata metropoli, se confrontate con la vecchia Maurilia provinciale, non ripagano d’una certa grazia perduta, la quale può tuttavia essere goduta soltanto adesso nelle vecchie cartoline…” – Italo Calvino, Le città invisibili.
Ci sono angoli a milano, forse sarebbe meglio dire bar all’angolo, che hanno ancora il sapore del vov. Sì il vov io me lo ricordo, anche se di preciso non saprei dire quand’è stata la prima volta che l’ho assaggiato, né l’ultima. Mi ricordo quella sua bottiglia bianca con la stampa rossa e blu. Credo di ricordarne vagamente il sapore, l’odore. ma la cosa che meglio ricordo è lo scaffale alto del bar di mio nonno dove stavano le bottiglie d’esposizione. Dal pavimento di quel bar io raccattavo le cicche spente da terra. Credo che il motivo fosse che mi ricordavano quelle carammelle mou che tanto amavo. Che mi hanno sbriciolato i denti da latte. Che erano fonte di litigio tra mia nonna e mia mamma. Ancora oggi ricordo la difficoltà di togliere la sottile carta che le ricopriva, appena un po’ di caldo cominciasse a scioglierle, tanto da rinunciarci, tanto da mangiarle con abbondanti pezzi di involucro residuo. Non so se sia grazie agli anticorpi fatti con quelle cicche che oggi mi ammalo raramente o se per colpa di quelle cicche che alterno periodi in cui fumo come un turco a momenti di rifiuto pure del fumo di una candela, fatto sta che mi sono rimaste dentro come un imprinting, che rimane lì, sopito, apparentemente spento, salvo poi manifestarsi all’improvviso, doloroso come la lingua che batte là dove il dente duole e piacevole come i ricordi chiamati alla mente dagli oggetti ritrovati in fondo ad un vecchio cassetto.
Cazzo ho finito le sigarette. Sono nella fase turca.
Ieri, grazie al nostro endemico fastidio nell’uso dell’auto, alla costante cocciutaggine a non arrendersi al solito pub, a un pizzico di snobbismo culturale, a non so quale cazzo di intreccio del fato (e fatemela romanzare un po’) siamo finiti al caffè Jesi. Una volta i bar non avevano bisogno di un nome. Erano semplicemente il bar sotto casa e basta. Forse perché una volta il nome lo avevano le persone del bar e non le cose. Il nome del caffè che si beveva era più che sufficiente. E il caffè jesi è gestito ancora da una di quelle persone che hanno un nome. Hanno una storia da raccontare. Che si intreccia con le storie di chi, pur girando il mondo per professione, sceglieva comunque di stare al bar sottocasa. Si intreccia con gli amori, le amanti, le mogli, le professioni già atipiche di chi si spartiva tra un lavoro dagli orari strani e una partita a ciapa no. Storie che sanno rendere una semplice sera costantemente minacciata dalla pioggia una sera un po’ speciale.
p.s. un giorno vi faccio i test della foto.